Non c'erano riusciti sindacati più o
meno rappresentativi a mettere in crisi, su vari temi,esterni e
interni, il Dott. Befera e l'Agenzia delle Entrate. L'impresa è
riuscita a un pensionato di Pozzuoli (NA) . Il 4 gennaio è partito
il redditometro ma il viaggio è durato poco. Un pensionato di
Pozzuoli ha fatto causa al Fisco per tutela della Privacy e un
giudice del Tribunale di Napoli gli ha dato ragione, vietando il
redditometro.Motivo: porta alla soppressione del diritto del
contribuente e della sua famiglia a una vita privata.Il giudice
inoltre articola una interessante illustrazione delle incongruità
dello strumento che non considera le differenze nel costo della vita
tra i territori, rischiando di identificare come eccessivamente alto
rispetto al reddito un determinato tenore di vita. Ovviamente
l'Agenzia delle Entrate ricorrerà, il nuovo governo probabilmente
metterà mano allo strumento per calibrarlo meglio, quello che ci
domandiamo solamente è: le nove banche dati a cui attingerebbe
l'Agenzia delle Entrate , costate al contribuente miliardi e che
certo non hanno indotto risparmi , non sarebbe meglio fossero
unificate e indirizzate a incrociare meglio i dati degli italiani
che non siano (una volta tanto) dipendenti o pensionati? In attesa
che la giustizia migliori e che la macchina fiscale venga
semplificata, razionalizzata e meglio indirizzata, prendiamo atto
che si tratta di un gran giorno per la Libertà e dell'ennesima
debacle della P.A. In una delle sue versioni considerate più
d'avanguardia (non ci si dica infatti che la colpa sia solo di Monti
e Grilli) . Dieci, Cento, Mille Pensionati di Pozzuoli!
domenica 24 febbraio 2013
domenica 17 febbraio 2013
LAVORO: PARTITA DAL PORTO FORNERO, UNA ZATTERA ALLA DERIVA NELLA NOTTE GALLEGGIA SULLA PALUDE DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI. I TRE MAGGIORI SCHIERAMENTI DISCORDI SUL DOPO ELEZIONI.
E' di pochi giorni fa l'ultimo richiamo
dell'OCSE che come al solito, all'italiana, verrà letto dagli
interessati, in più maniere tra loro contraddittorie. Dice l'OCSE
che più che il posto, va protetto il reddito del lavoratore. Ma i
soldi per farlo, in Italia, ci saranno?Le leggi, infatti, come noto,
non producono di per sé nuove risorse.Anzi, per raggiungere
l'obbiettivo spesso ne richiedono di nuove. Sempre OCSE sostiene che
ciò influirebbe sulla migliore dislocazione della forza lavoro. Ma
già qui emerge una divergenza di impostazione tra una Europa
liberista, che ipotizza un processo di causa -effetto spontaneo e una
visione italiana statalista e dirigista che unanimemente ritiene che
questi processi vadano guidati da politiche attive del lavoro (per la
verità solo nell'ultimissima comunicazione l'OCSE ne fa cenno, senza
troppa convinzione) , mai realmente fatte in decenni nonostante le
decine di migliaia di dipendenti pubblici impegnati nelle relative
amministrazioni di cui non si vuole ammettere , per motivi
clientelari, l'inutilità. Sarà dura realizzare la flessibilità in
entrata e uscita richiesta dall'OCSE quando la mentalità prevalente
è quella che l'una e l'altra parte , nelle due fasi, debbano essere
più brave a fregare la controparte che a rispettare regole di
correttezza e civiltà. Tutto un altro mondo, quindi. In ogni caso in
Italia, prima del 2017 un sistema universale di protezione sociale
per chi perde il lavoro non sarà realizzabile e quindi su questo,
per il momento, a meno che non siano scoperti pozzi di petrolio in
Via Flavia, è meglio mettersi l'anima in pace e proseguire coi
vecchi ammortizzatori. Già il Fondo Monetario Internazionale aveva
cominciato a snocciolare questo libro dei sogni: riforma della
giustizia, riforma tributaria, riforma della scuola e
dell'università, no ai condoni, ridurre il cuneo
fiscale,liberalizzazioni, privatizzazioni, ecc. Con un po' di ritardo
forse: qualcuno dovrebbe spiegare all'OCSE che in Italia le tasse
universitarie è inutile aumentarle ancora visto che ormai gli
studenti stanno abbandonando le facoltà sia per i già alti costi
sia per l'inutilità della laurea nell'attuale mercato del lavoro. E
con troppa prudenza, visto che lascia la porta aperta e quindi
ammette una modulazione temporale degli interventi in tutti i settori
di cui si propone la riforma compatibilmente con le esigenze di
bilancio. Quindi se ne parlerà tra anni. Per cui: parole al vento.
Nel frattempo la riforma Fornero si delinea (lo dicono gli
imprenditori e non stranamente quei partiti che dicono di voler
rappresentare il lavoro dipendente, il più colpito dal capolavoro
della professoressa torinese) come un disastro epocale. . Ha
aggravato i costi nell'utilizzo di apprendistato e lavoro a termine,
ha concorso alla perdita di ulteriori 320 mila posti di lavoro e a
un tasso di disoccupazione, specie giovanile, che da tempo non si
riscontrava. Le aziende fanno sempre meno contratti, soffocate da
burocrazia asfissiante e oneri inutili. Il contratto di apprendistato
è affondato per l'aumento della contribuzione, per il vincolo di
stabilizzazione e, per la verità, anche per i ritardi delle
Regioni. Analoghe disavventure per il contratto a tempo determinato,
grazie all'aumento della contribuzione, non riequilibrato dal premio
di stabilizzazione e dalla possibilità di omettere il “causalone”.La
reputazione delle collaborazioni e delle partite IVA era da tempo
segnata (per la intrinseca pericolosità) da parte delle aziende, il
contratto di inserimento è stato abrogato,le agevolazioni alle
assunzioni femminili sono al palo per la solita non immediata
attuabilità delle leggi italiane (da definire ancora territori e
tipi di impiego). Poiché è aumentato il contributo per l'ASPI è
diventato più costoso licenziare quindi si preferisce addirittura
non assumere. Nè tanto meno le aziende sono propense a versare i
contributi relativi ai fondi di solidarietà bilaterale e residuale.
Un capolavoro quindi cui oltre alla
Fornero ha sicuramente concorso l'elite amministrativa del Ministero
del Lavoro che ha fornito la propria preziosa consulenza tecnica a
supporto del Ministro. Anche l'Italia pertanto possiede le sue armi
di distruzione di massa. Come rimediare? Qui la confusione rischia di
accentuarsi. Il PD è per una modifica della riforma, il PDL per
abolirla, Monti (cioè Ichino) per sperimentare nuove soluzioni.
Molto dipenderà da chi ricoprirà il posto di Ministro del Lavoro e
dalle spinte che verranno, su un tema tanto sensibile, dalla sinistra
estrema, dalla lega, dai grillini e, ovviamente, dalle associazioni
sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Dalla lettura delle varie posizioni in
campo alcune osservazioni sono d'obbligo.
Il PD appare eccessivamente attardato
in una visione ingegneristica del diritto del lavoro. L'impressione
è che abbia difficoltà ad elaborare un modello coerente e compiuto
e, probabilmente, sia intenzionato in futuro ad appaltare alla CGIL e
alla Camusso , volta a volta, l'elaborazione di proposte da far
proprie come governo in cambio di una pace sociale (e qui non sembra
lecito attendersi uno scavalcamento da parte di CISL, UIL e UGL). Da
un punto di vista tecnico è prevedibile che si ripropongano gli
stessi errori compiuti quando si riformò la materia del lavoro
pubblico. Un groviglio di circolari, decreti attuativi, protocolli di
intesa che rischia di far diventare il diritto del lavoro italiano
ancor più giungla di come lo sia attualmente. Unico sollievo: forse
per un bel po' di tempo ci verrà risparmiata l'inutile polemica
sull'articolo 18 (forse l'argomento che alle aziende interessa di
meno, in quanto non a tutti è noto che le aziende non vogliono
licenziare ma crescere, produrre e assumere alle condizioni più
favorevoli possibili). Il PD non si occuperà di pensioni (non
smetterà mai di ringraziare la Fornero per averci lavorato sopra
sporcandosi fino al collo) se non per sanare la vicenda esodati
effettivamente imbarazzante per l'elettorato di riferimento L'art. 8
di Sacconi per il PD è come l'alieno di Roswell di cui si debba fare
l'autopsia: ancora non ha capito da dove cominciare,se la
contrattazione aziendale è un rischio o un opportunità: poco male:
saranno gatte da pelare per la CGIL....
L'uomo di punta per la Lista Monti è
Ichino, uscito sconfitto anche lui dalle primarie del PD. Ovvio che
per questo motivo e per la sua scelta di cambiare schieramento,
nonché per una vecchia ruggine tra lui e l'Amministrazione del
Lavoro, sarà difficile che la sua proposta possa essere influente,
quanto meno nella prima parte della legislatura. Il professore è
divenuto molto più prudente (il tritacarne in cui si è ficcata la
Fornero ha spaventato molti studiosi) e pone l'accento sull'aspetto
sperimentale della propria proposta perchè neppure lui sa se possa
davvero funzionare nel caos del mondo del lavoro in Italia. Diversi
sono i punti deboli della proposta. In sintesi:le imprese sono
stanche di esperimenti: vogliono lavorare e in sicurezza, altrimenti
vanno all'estero. Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato
(illusorio) rischia più di essere un dogma che una realtà. Forse è
bene che si elaborino modelli alternativi in cui tutti, senza
privilegi, possano cambiare lavoro nella vita in piena sicurezza. Il
precariato non è sgradevole tanto per la durata determinata ma per
essere sfruttamento sottopagato e ricattato. Più che la durata, qui
il tema è la dignità delle condizioni di lavoro e la sufficienza
della retribuzione. Quindi secondo noi, anche da parte di Ichino c'è
un evidente ritardo interpretativo. Di ridurre il cuneo fiscale
Ichino sa meglio di noi che non è aria, almeno finchè i costi della
PA saranno a questi livelli. Ichino poi dovrebbe sapere che
l'Outplacement in Italia il soggetto pubblico non sa farlo e quindi
non sarebbe gratuito. E delude quando scomunica l'art. 8 di Sacconi
in nome del totem CCNL. Ci saremmo aspettati un po' più di coraggio
nel valorizzare la contrattazione aziendale, l'unica che può
sparigliare il pluridecennale immobilismo dell'assetto sindacale
italiano.
Quanto al PDL pesa su questo
schieramento l'eredità della gestione Sacconi cui non si può non
pensare in relazione alla credibilità delle intenzioni di modificare
realmente, questa volta, il mercato del lavoro. Certo, non si può
negare che la scelta sia chiara (abolire la riforma Fornero e tornare
alla Legge Biagi) e che il quadro ideologico sia coerente. Il punto
debole è nella dimostrata incapacità, in questi anni, di quella
parte, di saper unire e non dividere il mondo del lavoro su una
prospettiva condivisa. E in Italia la riforma del Lavoro o la si fa
tutti assieme o non la si fa. Anche in questo caso, come per Ichino,
il contrasto tra tempo indeterminato e precariato è posto in maniera
non corretta e fuorviante, in maniera cioè poco moderna. Ovviamente
la validità dell'art. 8 di Sacconi è ribadita ma ci sarebbe più
piaciuta una netta presa di distanze da visioni dello stesso
penalizzanti per le condizioni dei lavoratori. Bene abbattere il
totem del CCNL ma per migliorare le condizioni di imprese e
lavoratori , non per peggiorarle perchè non è così che l'economia
cresce. Quanto al tema della liberazione del lavoro dai vincoli
fiscali e burocratici, lo stesso è convincente come sempre ma in
realtà è rimasto in questi anni una mera utopia nonostante le
responsabilità di governo ricoperte.
In conclusione auguriamo a tutte le
forze politiche, dopo le elezioni, di riuscire a realizzare qualcosa
di buono e costruttivo per tutti i lavoratori italiani. Ne sentiamo
veramente il bisogno.
COSA C'E' DIETRO ALLA POLEMICA SUL “MADE IN ITALY”?
Negli ultimi anni è accaduto che molti
mercati italiani siano stati assaltati da oggetti fabbricati
apparentemente fuori dal nostro Paese. Gli italiani li hanno
osservati, li hanno comprati, provati e spesso continuano a
comprarli. Perchè quasi sempre sono prodotti di qualità pari o
superiore a quelli made in Italy e, particolare non trascurabile,
costano di meno. Spesso questi bassi costi sono possibili per il
costo del lavoro che notoriamente in Italia è più alto che altrove
(come faremmo infatti se non mantenessimo la nostra cara
burocrazia?). Le aziende italiane (imprenditori e lavoratori) sono da
allora in difficoltà. Indubbiamente gli effetti per l'economia
italiana sono negativi. Vi sono riflessi sul destino di imprese che
devono chiudere e sul mantenimento della relativa occupazione. Dove
qualcuno ci perde, qualcun altro ci guadagna: il consumatore può
acquistare oggetti d'uso a un prezzo più favorevole, venditori
stranieri in Italia più o meno clandestini hanno la possibilità di
sbarcare il lunario e prosperano gli affari di quegli italiani che
forniscono queste merci prodotte all'estero (o in Italia a condizioni
da Terzo Mondo) ai venditori stessi.Nella misura in cui certa
criminalità organizzata controlla questi traffici, è ovvio che vi
sia una sua compartecipazione ai profitti. Chi lavora nelle fabbriche
di questi oggetti vive una realtà double-face : da una parte è
sfruttato e sottopagato, rispetto agli standard occidentali.
Dall'altra ha compiuto un passo avanti sulla strada dell'uscita dalla
fame e dalla povertà, perchè, anche se è triste dirlo, avere un
lavoro e una magra retreibuzione è sempre meglio che non averlo. Chi
si scandalizza per queste affermazioni evidentemente non ha mai
provato effettivamente la fame, la povertà, la
disperazione.Sottolineamo il particolare che vorremmo non sfuggisse.
Non sempre e non più la produzione avviene all'estero ma ciò si
verifica anche in Italia. Chi impedisce di farlo? Nessuno, quasi,
poiché i controlli non vengono fatti da alcuno, se non , nei limiti
del possibile, dalle forze dell'ordine, che non finiremo mai di
ringraziare. Sull'operato del resto della PA è meglio che stendiamo
un velo pietoso (non certo per colpa degli addetti ma
dell'organizzazione che nel pubblico colpisce e penalizza chi
vorrebbe lavorare).
Per gestire questa situazione da anni
c'è un intenso impegno degli organismi europei e una attività
costante delle associazioni imprenditoriali. In verità senza molti
risultati. Lo sviluppo , un certo tipo di sviluppo, sia produttivo
che commerciale, non lo puoi bloccare con i cartellini, così come è
inarrestabile il fenomeno migratorio con impronte digitali o flussi o
permessi di soggiorno dati col contagocce.
Ci dispiace per gli imprenditori delusi
ma spesso i tarocchi sono quelli prodotti dalle loro italianissime
fabbriche (per lucrare sul costo dei materiali) e non da quelle dei
poveri sfruttati. Dimenticano poi un particolare: che il consumatore
(ma il mondo potremmo dire) è stanco di sopportare il costo
derivante dal mantenimento di privilegi da parte del commercio
vecchio tipo. Stiano tranquilli che se saranno in grado in futuro di
fabbricare prodotti di valore a un prezzo giusto la gente li
acquisterà senza andare a vedere il cartellino. E crediamo che la
stessa cosa già faccia, per risparmiare, il commerciante che un
minuto prima si è lamentato delle chincaglierie cinesi. Così come
sua moglie, quando va a fare la spesa. Ciò sempre che si scelga di
vivere in una società libera, anche commercialmente. Avete voluto il
capitalismo? Bene, lo stesso prevede che quando uno non sia più
capace di fare un mestiere, lo cambi. Avete voluto una società
liberale, con regole da rispettare per una migliore convivenza? Avete
sempre rispettato queste regole?No? La stessa cosa la stanno facendo
ora altri abitanti dell'Italia e altri Paesi. Adesso, speriamo,
capirete come è fastidioso vivere in un posto dove ognuno, come voi
da tanto tempo, fa un po' quello che gli pare! Certo noi non possiamo
pagare un paio di scarpe il triplo solo perchè voi possiate
mantenere le vostre ville, amanti e macchinone. Quindi andate a
produrre in Cina e andate a fare concorrenza ai cinesi, se ci
riuscite. Prima o poi verranno in Italia imprenditori e commercianti
stranieri più bravi di voi che (senza aiutini) sapranno mettere a
frutto quello che nessun Paese al mondo ha: i mestieri e le abilità
di tanti lavoratori italiani.
I RAPPORTI CON L'EUROPA E I VERI INTERESSI DEI LAVORATORI ITALIANI
In campagna elettorale è uno dei tempi
più trattati: quello dei rapporti dell'Italia con la Merkel e con
l'Europa (da essa , sembra, di fatto, egemonizzata) con la Francia
(che bene o male, come suo solito, riesce a darsi una chiave per
gestire i propri interessi) con gli USA (da noi italiani criticati
ma, probabilmente, non del tutto compresi)
A nostro parere i ragionamenti che si
fanno in Italia sono inquinati dalla persistenza di miti e di frasi
fatte. Uno dei rimpianti legati all'avvento dell'euro è quello della
sopravvenuta impossibilità di mantenere il nostro export facendo
leva, come una volta accadeva, sulla svalutazione. Si dice: perchè
americani e giapponesi possono farlo e noi no? A nessuno viene in
mente che forse è l'imprenditoria italiana a non saper essere più
competitiva come una volta. Forse perchè ha sempre pensato ad
arrangiarsi e a speculare più che agli interessi veri del Paese la
tutela dei quali fosse oggetto dell'attività di una classe dirigente
politica in verità sempre più scadente perchè scarso oggetto delle
attenzioni e delle cautele (a parte le interferenze illecite e
l'assalto alla diligenza delle agevolazioni) degli imprenditori. Chi
è causa del suo mal, quindi, pianga se stesso.Grande responsabilità
è anche dei grossi sindacati, i quali hanno seguito a ruota, come
un ballo di coppia, la classe imprenditoriale, puntando non sullo
sviluppo della produttività ma sul perpetuarsi dei pascoli pubblici
per mantenere le proprie greggi. Poca lungimiranza quindi, anzi
miopia, nonostante il fiorire di centri studi di politica economica.
Ora forse è troppo tardi per scampare a un destino simil-greco
(nella sostanza anche se, probabilmente, nella forma, un po' più
soft...o ci saremo già dentro e non ce ne siamo accorti?)Perchè? Il
fiscal-compact è ormai realtà e le ganasce ce le siamo messe e
abbiamo lasciato che ce le mettessero. Gli impegni l'Italia li ha
mantenuti e dovrà mantenerli. Tutti i partiti (per scarso coraggio)
lo ammettono e anche chi si vuole un po' smarcare sappiamo già che
dopo, in Europa, chinerà la testa perchè le grandi potenze sanno
come utilizzare i loro strumenti per farsi rispettare. Non si esce da
un meccanismo da un giorno all'altro. Occorrerebbero grandi
personalità politiche che ragionassero su un orizzonte di
medio-lungo periodo. Questi pensano solo a mantenere il loro seggio
parlamentare il più possibile e a monetizzare quanto più si può.
Gli altri, i “nuovi” arrivati sulla scena politica avranno pure
tante buone intenzioni ma non sono oggettivamente e comprensibilmente
preparati a una attività così complessa.La classe imprenditoriale?
Anch'essa pensa agli affari suoi. Chi può trasferisce i propri
interessi fuori dall'Italia (quindi non solo la FIAT lo sta facendo
ma tutti gli altri).
Il secondo mito da sfatare è quello
della tutela dell'italianità. Ma quale? Quella del boom economico
degli anni '60? Bella, ma nei film. Quella delle grandi personalità
e dei cervelli? Ma le une e gli altri ormai non parlano più neppure
in italiano, se non nella pubblicità e nelle cerimonie di
premiazione. Infatti, li abbiamo indotti a scappare via, adottando un
sistema di istituzioni culturali universitarie e scolastiche quello
sì degno dei film di Totò o degli spettacoli di Pulcinella. O
l'italianità degli imprenditori che vanno a portare sfruttamento,
mazzette, malaffare all'estero? Con quelli lì l'italiano onesto non
ha nulla a che fare. Ma non è che per caso tutta questa passione per
l'italianità sia alimentata dai vertici di quelle aziende (Edison,
Bnl, Parmalat, Finmeccanica, Saipem, Alitalia,Telecom, Enel , Eni e
Fiat) che o già sono state comprate o stanno per esserlo dagli
stranieri? Ma perchè il lavoratore italiano dovrebbe preoccuparsi
della sorte di imprenditori e manager incapaci e guardare con timore
all'avvento di imprese e paesi diversi desiderosi di fare e non di
evadere, speculare, corrompere, licenziare? Quindi, spettabile
management di quelle aziende in via di acquisizione (e giornali
amici), lamentatevi pure ma non nel nostro nome di italiani. Voi
avete tradito l'Italia in nome del vostro portafoglio, voi con noi
non avete più nulla a che fare e non vi vogliamo più. O meglio,
aspettiamo di incontrarvi a fare il nostro stesso lavoro alla catena
di montaggio, negli uffici o a pranzare al nostro fianco alla mensa
aziendale.Vuoi vedere che grazie all'avvento degli stranieri
finalmente i vertici aziendali verranno scelti in base a criteri
meritocratici e non alla discendenza famigliare?
I DIPENDENTI PUBBLICI E LA POLEMICA SUI COSTI DELLA BUROCRAZIA
I dati diffusi da Confartigianato sui
costi della burocrazia fanno impressione. Se ne parla da anni ma
evidentemente fare qualcosa di serio per ridurla, razionalizzarla e
modernizzarla si è rivelato impossibile.
Diamo per scontato che
sull'interpretazione del fenomeno e sull'identificazione di esso come
un problema (“il” problema?) si sia concordi. Per lo meno tra i
cittadini che non abbiano le mani in pasta con quel groviglio di
interessi e vogliano sinceramente il bene di sé stessi, delle loro
famiglie, delle loro imprese (se non le hanno già chiuse).La domanda
capitale è : “che fare?” ma soprattutto “chi può fare di
più?” (l'assonanza sanremese è puramente casuale).
Soggetti politici che vogliano
veramente innovare, all'orizzonte, non se ne vedono. Per ragioni
diverse e comprensibili. Uno schieramento ha nell'elettorato
appartenente al pubblico impiego uno dei propri pilastri. Un altro è,
per sua natura, punto di riferimento, di fatto, della dirigenza (e si
sa che i generali, senza un esercito, anche scalcinato, contano ben
poco) cioè di chi nella PA è presente non a caso e svolge ruolo di
garante per il perpetuarsi del potere, un altro ancora ha capito, sin
dal 1994 che anche se a malincuore e turandosi il naso con la
burocrazia deve fare i conti (e non può regolare i conti) se non
vuole che le proprie “riforme” tese a favorire determinate
categorie e territori serbatoio elettorale si spengano nel nulla.
Altri schieramenti, oggi marginali, abituiamoci a valutarli meglio
una volta che avranno avuto veramente a che fare col mostro. Ne
usciranno (la storia ci dice questo) o fagocitati, o isolati e
sconfitti oppure ne assaggeranno per un po' i privilegi in attesa
della normalizzazione. Soggetti economico-imprenditoriali hanno
dimostrato di avere un rapporto di amore-odio con la burocrazia. La
detestano quando la stessa manda a monte i propri affari ma spesso,
in silenzio e di nascosto, cercano di mettersi d'accordo con essa,
anche illecitamente, per fregare i concorrenti. Diciamo poi che in
Italia questi soggetti non hanno mai brillato per attaccamento ad
interessi superiori o al bene comune. Meglio non illudersi e non fare
affidamento su di loro. I sindacati grandi e storici sono in rapporto
di interesse con gli alti livelli burocratici. Da uno scambio con
essi derivano i residui favori e privilegi che riescono a strappare
per conservare gli iscritti da loro rappresentati, che si
accontentano sempre di meno, così come quei sindacati li hanno
gradualmente abituati a fare. I sindacati piccoli sono stati
annullati da una normativa sulla rappresentatività di cui sinora né
loro né altri hanno pienamente compreso la natura sostanzialmente
ingannevole e antidemocratica (cosa c'è di più autoritario della
finta democrazia?). Restano i lavoratori pubblici, cioè noi, per la
verità sempre più presi dal problema di campare giorno per giorno
più che dalle preoccupazioni sulla sorte della democrazia. Diciamo
loro: quando avrete tempo di rifletterci vi accorgerete che in Italia
nulla è cambiato e nulla muterà finchè non saranno proprio i
lavoratori pubblici a far propria la bandiera della lotta alla
burocrazia (già, proprio quella che apparentemente vi dà da
mangiare – anche se in realtà è il contribuente che lo fa- e
quella nella quale sognate ancora che un domani vostro figlio possa
assere assunto tramite un concorso), della battaglia perchè vengano
ridotti gli adempimenti per avviare una nuova impresa, per costituire
un nuovo rapporto di lavoro, i passaggi per accedere al credito o
quelli fiscali. Così come per ridurre e semplificare le leggi e per
digitalizzare la pubblica amministrazione. Perchè innanzitutto voi
(noi) siamo quelli ad aver bisogno di una giustizia veloce ed
efficiente, di servizi alla famiglia veri , diffusi, alla portata
delle nostre tasche. Prendiamola allora in mano questa bandiera e
muoviamoci, non fidandoci di coloro che dicono che se si riducesse la
burocrazia questo significherebbe perdere tanti posti di lavoro
impiegatizi. Ci ricattano e ci ingannano, per farsi sempre gli affari
loro. Ragioniamo con la nostra testa, guardiamo (almeno su questo)
all'Europa e lasciamo al loro destino i demagoghi sindacali , gli
unici che hanno interesse a che si perpetui questo sistema perverso,
temendo che in caso contrario dovrebbero tornare a lavorare sul
serio.
domenica 10 febbraio 2013
BENETTON E ELECTROLUX: NEL NORD-EST, I NODI VENGONO AL PETTINE
Le centinaia di esuberi dichiarati da aziende come Benetton ed Electrolux sono la conferma che è in atto nel Nord-Est una svolta decisiva, la transizione a un modello che non potrà più essere quello esaltato negli anni '80 e '90. I nodi sono quelli che da tempo si conoscono: eccessiva tassazione in Italia, tra l'altro non modulabile verso il basso a livello regionale, burocrazia soffocante, infrastrutture insufficienti, impossibilità di imporre dazi sulle merci importate per fronteggiare la concorrenza di paesi con un costo del lavoro enormemente inferiore al nostro. Chi ancora ha voglia di fare l'imprenditore e pensa in grande guarda all'Estremo Oriente (dove tuttavia, avvertiamo, cominciano ad arrivare segnali che ci dicono che prima o poi la pacchia finirà: quindi occhio a comportarsi bene perchè come la vicenda Marò insegna, è molto difficile tirar fuori dai guai chi laggiù ci finisce). Chi si muove con un po' più di prudenza (aspettiamoci che la Fornero prima o poi spari dichiarazioni del tipo “gli imprenditori italiani sono tutti mammoni”) guarda alla vicinissima Carinzia dove (ne abbiamo già parlato di recente ) la tassazione addirittura scende ad un appetitoso 25% ma dove soprattutto le autorità locali stanno creando un ambiente idoneo a ospitare e a poter far riprodurre la specie in estinzione dell'imprenditore italico. La situazione è leggermente caotica perchè , anche in prospettiva post elettorale, è difficile che si affermi un governo che possa lasciare un po' di libertà alle regioni di modulare la pressione fiscale, la classe dirigente locale a parole dice di volere questo ma non ha dimostrato di saper portare la classe imprenditoriale di cui avrebbe voluto essere punto di riferimento a condividere e fare propria una cultura che spingesse a una visione più patriottica (anche se regionalistica) tale da scegliere di combattere qui in Italia anziché lasciare affondare la barca. Difetto, questo dell'irresponsabilità e della spregiudicatezza autolesionistica, storico dell'imprenditoria italiana. Della classe politica, locale e nazionale (tra l'una e l'altra cambia solo la cadenza dialettale ma non il modo sostanziale di vedere le cose) non parliamo ulteriormente, per amor di patria perchè ormai è come sparare sulla croce rossa. I maggiori sindacati (che da politici e imprenditori sono additati come primi e diabolici responsabili del disastro) sappiamo tutti come ormai siano incapaci di altro che di dichiarare scioperi inutili. Ma non per malvagità ma semplicemente perchè ancora non ci hanno capito nulla e sono solo buoni, come il padrone che difende la sua “roba” , a mantenere , illudendolo con ogni artifizio, il proprio gregge di iscritti. In questa confusione , durante lo tsunami che sta spazzando via il tessuto produttivo del nostro Paese, anche nella versione evoluta che si era affermata nel nord est, sappiamo solo che ne usciremo facendo la stessa cosa di coloro che tempo fa deridevamo guardandoli dal nostro piedistallo di terracotta: copiando (perchè quando non sa essere originale così deve fare il mediocre) le cose buone (perchè ce ne sono) che si stanno facendo altrove.
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